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giovedì 31 dicembre 2009

Ricerche e Soggeti per tesi di Laurea

Nota
La Biblioteca dispone di sufficente documetazione per svolgere la ricerca o un tsi di laurea triennale sul tema sotto riportato.
Testo base di riferimento: Gerhard Schreuber, I Militari Italiani Internati nei campi di cncentramento del terzo reich 1943, Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, 1992
INTERNATI
Militari Italiani in Germania
dall'8 settembre 1943 all'8 maggio 1945


di Massimo Coltrinari
(massimo.coltrinari@uniroma1.it)


(relazione di di sintesi per il Convegno Esercito e Popoli 1999, Roma)
Il tema che mi è stato assegnato per questo incontro riguarda la prigionia, nella sua forma di internamento, dei militari italiani all'indomani della firma dell'armistizio con le potenze Alleate da parte dell'Italia.
Le vicende sono note: Vittorio Emanuele III, dopo aver colto l'occasione del voto contrario a Mussolini del Gran Consiglio del Fascismo, di esonerare dalle responsbailità di governo Mussolini, affidò al Meresciallo badoglio l'incarico di formare un governo che trovasse una soluzione accettabile per uscire dalla guerra dichiarata il 10 giugno 1940 alla Francia ed all'Inghilterra e dalla stragrande maggioranza degli italiani, nell'estate del 1943, considerata ormai perduta.
Il Maresciallo Badoglio, dopo tentativi più o meno infruttuosi, risce a prendere contatti con gli Alleati e a gingere alla firma di un Armnistizio tra l'Italia e le potenze anglosassoni. Questo Armistizio viene siglato il 3 settembre 1943 in un uliveto nella piana di Cassibile.
La notizia di tale firma viene data dagli Alleati, all'insaputa di badoglio la sera dell'8 settembre, con lo scopo primario di agevolare lo sbarco nel golfo di Salerno previsto nella notte tra l'8 settembre ed il 9. Il governo badoglio non riesce a padroneggiare la situazione e praticamente lascia le Forze Armate in balia di se stesse. La pronta reazione tedesca, agevolata dal fatto che Berlino, dalla caduta di Mussolini, aveva sempre piuù diffidato dell'atteggiamento italiano, nel breve volgere di qualche giorno disarma ed annienta tutte le forze armate italiane sia in Italia che all'estero, determinando l'inizio della tragica odissea degli Internati Militari Italiani in Germania

La Consistenza delgi Internati Militari Italiani

Secondo studi recenti[1] l'Italia schierava, alla data dell'armistizio oltre 1 milione e mezzo di uomini; complessivamente ne sono stati disarmati 1006730, mentre i rimanenti 493.000 sono riuscite a sfuggire alla cattura tedesca, o a raggiungere la montagna, o le proprie case oppure, se all'estero, i movimenti di resistenza già attivi contro la coalizione antihitleriana.

Secondo le stesse fonti i 10076780 militari italiani catturati dai tedesci, sono stati presi dai seguenti reparti germanici: Comando gruppo Armate B, Rommel, in Italia, 415.682, Comando 19° Armata, in Francia, 58722, Comando Sud Italia, Kesserling, 102.342, Comdando gruppo Armate Est, Grecia ed Egeo, 265.000 e Comando 2a Armata Corazzata, Balcani, 164.986.

La stessa fonte offre il seguente quadro generale di situazione sui militari italiaani internati in Geermania:
- militari italiani alle armi, oltre 1.500.000
- militari italiani sfuggiti alla cattura, 493.000
- militari italianicatturati, 1006.780
- militari italia sfuggiti ai tedeschi dopo la cattura, 190.000
- militari italiani internati, 725.000
- militari italiani che hanno aderito alla RSI dopo l'ingresso nei lager, 114.5oo
- militari italianiconsiderati prigionieri ed inviatial fronte dell'est come ausiliari, 12000
- militari italiani internati nei lagr del III Reich e territori occupato, 598.000

Da questo riepilogo emerge che il 19% ( 190.000) del totale di 1.006730 militari disarmati sono sfuggiti ai tedeschi o col loro consenso o per abilità personale, mentre circa il 20% hanno collaborato con i tedeschi sia la momento del disarmo (90.000) sia con le successive adesioni dall'ottobre 1943 al gennaio 1944 (114.500), cifra che rappresenta il 16% degli italiani internati nei campi di concentramento (725.000).

I dati che sono stati riuportati presentano discrepanze dell'ordine dell1% e quindi dovrebbero corrispondere o essere quanto meno piuttosto vicine alla relatà storica.

[1] Schreiber G., I Militari Italiani Internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 -1945, Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1992

mercoledì 30 dicembre 2009

Massimo Coltrinari
(ricerca23@libero.it)


La fine della guerra e l’avvio della ricostruzione.
Il ritorno a casa: aspetti quantitativi e qualitativi



Il tema del ritorno

Il tema del ritorno che qui affrontiamo è legato, in modo classico, alla figura mitica di Ulisse. Dopo la guerra, vinta, oltre dieci anni di peripezie per arrivare a casa; e qui trova una situazione non certo facile, che richiede ulteriori impegni e cimenti per raggiungere sostanzialmente quella pace, quella serenità, quella normalità, che era stata lasciata oltre venti anni prima. Alla figura poliedrica di Ulisse, alla sua “odissea, a questa figura poliedrica ha fatto e fa riferimento il memorialismo dell’ultimo conflitto mondiale, un memorialismo che non è basato sul marciare dei soldati, sulle grandi offensive, sulle vittorie sul campo, ma sempre originante da tragedie, da sconfitte, da situazioni tragiche in cui colui che vuole ritornare a casa, il nostro “odisseo”, è protagonista.
Con la fine della guerra inizia la reale possibilità del ritorno a casa. E’ il momento in cui si materializza l’ultimo segmento delle odissee in corso, almeno di coloro che non sono Caduti o morti e che ancora nutrono la speranza di rivedere la loro casa. In questo sforzo il ritorno a casa di tutti coloro che sono stati travolti dalla guerra, rappresenta un momento fondamentale e qualificante. Significa ripristinare la normale vita familiare, dare una dimensione utile alla famiglia, in cui, dopo le paure, gli orrori, i lutti e le crudeltà della guerra, si ricompongono gli affetti e la voglia di vivre ed affrontare il futuro.

Non è chiaro quando è finita la guerra perché le date che si citano e che sono sui libri di storia sono solo date di riferimento. Abbiano dedicato un ampio saggio a questo aspetto[1] cercando di individuare il termine ultimo del secondo conflitto mondiale; per brevità qui accettiamo il dato che in Italia la guerra è finita il 25 aprile 1945 e in Europa l’8 maggio dello stesso anno,.[2] Ma in realtà giuridicamente è finita il 10 Febbraio 1947 con la firma del Trattato di Pace di Parigi.
Ma se è difficile individuare quando è finita, ancora più difficile stabilire quando è cominciata.[3] Per brevità noi italiani vediamo nel 10 giugno 1940 l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, data della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia. Ma è un approccio che stiamo abbandonando a favore di uno più ampio.
In pratica l’Italia è stata in guerra dal 1935, al momento della dichiarazione di guerra all’Etiopia, e poi ininterrottamente, fino al 1945, al termine delle quali, essendo stati sconfitti su tutti i fronti, gli italiani sono “ritornati a casa”, qualunque fosse il loro ruolo e compito.
Questo ampio arco di tempo, due lustri, può essere diviso in due parti: le guerre italiane del Duce, capo del Fascismo, che sono di conquista, di imperio, che ha portato l’Italia ad essere il campo di battaglia fra Alleati e la Coalizione Hitleriana, dopo il nostro Armistizio dell’8 settembre 1943 ( la campagna d’Italia) e la guerra di liberazione. Le Guerre Italiane del Duce si possono dividere in due parti: quelle facili fino al 1940 e quelle difficili fino al 1943, in un arco che va appunto dall’Etiopia all’armistizio con questa cadenza:1936: La Guerra d’Etiopia. L’Impero;1936: La Guerra di Spagna; 1939: L’invasione dell’Albania; 1940: La Guerra parallela, che poi diviene la Guerra Subalterna 1940: La Guerra alla Francia; 1940: La Guerra alla Gran Bretagna;1940: La Guerra alla Grecia;1941: La Guerra alla Jugoslavia;1941: La Guerra alla URSS, che aveva un accordo di non aggressione con la Germania fino al 21 giugno 1941; 1941: La Guerra agli Stati Uniti. Queste le nazioni principali: in più vi sono tutti i loro alleati. In pratica l’11 dicembre 1941 eravamo in guerra con tutto il mondo, tranne pochi paesi neutrali. Con l’8 settembre i nostri nemici divennero non nemici, mentre i nostri alleati, divennero feroci nemici. Quindi dal 8 settembre 1943 L’Italia e gli Italiani erano nemici/ex nemici, alleati/ex alleati, con tutti, in pratica in posizione di inferiorità morale e materiale con tutti.

Nel momento in cui la guerra finisce inizia per tutti il desiderio di ritornare a casa, di ritornare alla normalità, dopo 10 anni di un crescendo guerresco ed imperiale che ha portato solo lutti, morti e distruzioni.

Si può dare un profilo qualitativo e quantitativo di questo ritorno, individuando le categorie di italiani coinvolti tenendo presente il ciclo che abbiamo descritto delle Guerre Italiane: dal 1935 al 1945, suddividendo il “ritorno” in due periodi

1935 1943 – Le Guerre Italiane del Duce, capo del fascismo, con un “ritorno” che colpisce, da una parte, le comunità italiane ed i cittadini italiani espulsi dai territori conquistati ed invasi, anche se presenti da prima della guerra, da una parte; e dall’altra i soldati che sono caduti in mano al nemico, cioè i prigionieri.
1935-1945 - La Guerra di Liberazione, intesa come un tutto uno nella quale il popolo italiano su più “fronti” ha combattuto il nazifascismo e la coalizione hitleriana per avere la possibilità di scegliere il suo futuro. La Guerra di Liberazione 1943 -1945 è, quindi, concepita come una guerra su cinque fronti, che sono: Il I Fronte: il Sud, con il Governo Regio che rappresenta la continuità dello Stato Italiano, con la sua partecipazione alla Campagna d’Italia degli Alleati con il I Raggruppamento Motorizzato, il Corpo Italiano di Liberazione, i Gruppi di Combattimento, le Divisioni Ausiliare. Il II Fronte: il Nord, con il movimento partigiano guidato dal CLNAI, Il III Fronte: l’Internamento in Germania, ovvero la Resistenza del filo spinato, in cui si inserisce il contesto degli italiani oggetto di internamento razziale, politico, sociale, etnico, di sicurezza, occasionale. Il IV Fronte: La Resistenza dei militari italiani all’estero, con la partecipazione ai Movimenti di Liberazione Nazionali.
Il V Fronte: la prigionia di guerra, la partecipazione indiretta alla guerra totale con le forme di cooperazione e cobelligeranza. (Italian Service Units per gli USA; BTU per la Gran Bretagna).
Senza dimenticare il ritorno del Fronte Nemico: la coalizione Hitleriana, di cui la Repubblica Sociale Italiana è una componente, dove si avvierà anche qui “il ritorno” a casa con il reinserimento nel tessuto sociale degli ex aderenti alla Alleanza Hitleriana inquadrati nell’esercito tedesco sotto varie forme, ai volontari in Germania per lavoro, ed ai ex appartenenti alla RSI.





L’Organizzazione per l’Assistenza ai Reduci 1944-1947

Con il trattato di pace firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi l’Italia chiudeva definitivamente la difficile pagina aperta nel 1935 con la politica di conquista e rafforzata con la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 Il 25 aprile 1945, , hanno termine i combattimenti e praticamente la guerra con la sconfitta dell’Esercito tedesco in Italia e la dissoluzione della R:S.I. e del suo apparato politico-amministrativo. Da quella data si cerca, fra difficoltà di ogni sorta, di riprendere, al nord, una vita normale, innestandosi nelle problematiche delle regioni centrali e meridionali già liberate. Una situazione che rimarrà incerta dal punto di vista della sovranità nazionale fino al citato trattato di Pace del 10 febbraio 1947. In questo ampio contesto instabile, si cerca, come Stato di dare vita ad una organizzazione per l’Assistenza a chi ritorna e chi vuole ritornare alla propria famiglia.
Sin dai primi mesi del 1944, il Governo del Sud, in relazione al problema dei profughi civili, e poi dei prigionieri di guerra, aveva istituito:
L’Alto Commissariato per i Prigionieri di Guerra, con decreto-legge 6 aprile 1944, che doveva sovrintendere allo stato, trattamento impiego ed assistenza dei prigionieri di guerra “sino all’atto del loro rimpatrio”
L’Alto Commissariato per l’Assistenza dei Profughi di Guerra, con decreto-legge 29 maggio 1944, che era destinato a trattate le materie “nei confronti dei civili profughi di guerra internati e deportati in conseguenza di eventi bellici.
L’Alto Commissariato per i Reduci, con decreto-legge 1 marzo 1945 n. 110, per occuparsi dei reduci al momento del loro collocamento in congedo.

Nell’ottobre 1944, allorché l’andamento della guerra stava autorizzando a pensare che si poteva profilare un inizio di rientro dei militari reduci dalla Prigionia e dall’Internamento, si affrontò il tema di come mettere sul campo le attrezzature necessarie e chi vi dovesse provvedere.La Presidenza del Consiglio, preso atto che gli Alleati intendevano che l’Esercito si dovesse disinteressare a questo problema, in quanto gli Alleati non intendevano distrarre dalla loro organizzazione logistica e in parte operativa, alcun elemento italiano, decise di dare mandato al Sottosegretario alla Guerra di predisporre un piano per l’accoglimento dei Reduci, in accorto con i due Alti Commissariati esistenti.

Da tale piano emerse e fu costituito l’Ufficio Autonomo Reduci da prigionia di Guerra e Rimpatriati ( Decreto Ministeriale del 9 novembre 1944 n. 4300). I reduci, a mano a mano che venivano restituiti alla vita civile entravano nella sfera di competenza del Ministero dell’Assistenza post-bellica, istituto con Decreto Legge del 21 giugno 1945 n. 380 e del 31 luglio 1945 n. 425. Questo Ministero sostituì ed assunse le attribuzioni dei tre Alti Commissariati istituti nel 1944. Chiunque rientrava in Italia veniva, per quanto possibile, assistito. Questa assistenza era incentrata sui seguenti aspetti:
- assistenza sanitaria
- servizio vettovagliamento
- posti di ristoro
- distribuzione di vestiario
- assistenza igienica
- determinazione e corresponsione delle competenze, se dovute
- determinazione del comportamento dei singoli di fronte al nemico ed alla situazione politica del paese
- trasporti ed avvio al proprio domicilio
- statistica e circolazione delle comunicazioni ed informazioni




Chi ritorna?

I Reduci.
I Combattenti. I Soldati dei Gruppi di Combattimento
I Combattenti Volontari per la Libertà. CVL
I Soldati Combattenti all’Estero

I Prigionieri,
coloro che sono sotto la convenzione di Ginevra, che sono in mano alle potenze nostre nemiche fino al 1943; nonostante l’armistizio dell’8 settembre1943 non vengono rilasciati e non possono ritornare in Italia fino al 1945, tranne eccezioni.

Gli Internati
Internati Civili 1940- 1943 nei paesi in guerra: Francia, in Gran Bretagna, Negli Stati Uniti,
Internati Civili 1943-1945 nei paesi neutrali. Svizzera, ecc,
Internati nei Paesi ex Alleati: Giappone, e alleati alla Germania
Internati Militari Italiani In Germania
Deportati Civili
Deportati Politici
Internati per ragioni Etniche, Razziali, di Sicurezza, Occasionali

Gli appartenenti alla Coalizione Hitleriana
Soldati nelle Forze Armate della Germania
Appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana

Espulsione di cittadini Italiani nei Paesi ex occupati: Jugoslavia, Albania.
Espulsione di cittadini Italiani



Il Ritorno dei Reduci
Partigiani
Soldati dei Gruppi di Combattimento.
Militari Combattenti all’estero
I

La fine della Guerra e la resa tedesca, avvia la smobilitazione delle forze combattenti. Gli Eserciti Alleati rimarranno sul suolo nazionale fino agli inizi del 1947, poi anche l’ultimo soldato Alleato torna a casa.
La smobilitazione delle formazioni partigiane viene svolto nell’estate del 1945 in un clima di esaltazione collettiva, di euforia, di voglia di guardare al futuro. Il Partigiano, si sente il vincitore morale, ed anche materiale, della guerra di liberazione, e questo fa da contrappeso, anche negativo, ai Reduci della Prigionia e dell’Internamento. Ha tutta l’attenzione delle autorità ed è presente, con ruolo centrali, in tutte le cerimonie. Il suo ritorno a casa, ove anche lui trova lutti e miserie, è però permeato dalla considerazione collettiva e dall’autostima, dalla convinzione che il suo impegno ha liberato l’Italia dall’idra nazifasciste e che ora vi è la concreta possibilità di avere un Italia migliore. Il suo affatto spirituale, adesso che ha deposto le armi, viene riversato nell’impegno politico, ideologico, civile, con la partecipazione alla vita democratica, attraverso i partiti politici.

La smobilitazione dei soldati dei gruppi di Combattimento è una smobilitazione parziale. I Gruppi di Combattimento, raggiunti i confini alpini nelle ultime fasi dei combattimenti, sono l’ossatura sul terreno di quello che sarà ed è l’esercito Italiano, quello che poi si definirà di transizione, e che sarà la base delle Forze Armate della repubblica. Vengono congedate le classi più anziane ed immesse le nuovi classi di leva, mentre si assorbono coloro che, combattuta la guerra come “prigionieri-cooperatori” con americani e inglesi, sono in grado di gestire il materiale, armi ed equipaggiamenti, che gli Alleati lasciano in Italia. Particolare significativo il Ritorno a casa dei soldati del nord Italia, che sorpresi al sud dell’Armistizio, riescono a rivedere le loro famiglie dopo anni di lontananza



Il Ritorno dei Prigionieri di Guerra. L’Inizio dell’oblio e dell’indifferenza
Soldati Italiani dietro i reticolati. Nel Momento in cui si possono prendere queste fotografie, voleva dire che era giunto il momento della Liberazione ed iniziava la fase del rimpatrio. Il momento a lungo atteso durante i lunghi mesi di prigionia. Per alcuni essa si protrasse per oltre un lustro prima di essere rilasciati e rientrare in Patria.

Carta della Organizzazione dei centri alloggi nel periodo maggio-settembre 1945. In genere i prigionieri di guerra rientravano in Italia dai porti meridionali; Internati e deportati dai centri di alloggio del nord Italia.

Una fotografia simbolica circa il rimpatrio dei prigionieri di guerra: prigionieri italiani appena liberati ospiti di una famiglia di italo-americani al farewell party prima del rientro in Italia. L’accoglienza e il rientro in famiglia rappresenta il primo passo verso il totale inserimento nel tessuto sociale dopo l’esperienza della prigionia.

Con l’Armistizio dell’8 settembre 1943, in linea teorica tutti i prigionieri di guerra italiani in mano alle potenze alleate dovevano essere rilasciati ed avviati in Italia. Così non fu. Il rilascio dei prigionieri iniziò già in Sicilia nell’estate del 1943 ( ne furono rilasciati sulla parola 65.000) ma i veri e propri rimpatri iniziarono nell’estate del 1945.

I prigionieri in mano agli Stati Uniti ammontavano a 124.000, in campi di concentramento in Nord Africa, negli Stati Uniti e nelle Haway; in mano alla Gran Bretagna 408 500, in campi di concentramento in Nord Africa, in Medio Oriente, in Kenya, in Sud Africa, in India, a Cylon, in Australia e nello stesso territorio metropolitano, in Gran Bretagna; in mano alla Unione Sovietica si supponeva un numero di 80-100 Uomini, tutti provenienti dall’ARMIR, In mano alla Francia Libera, circa 37.000. Il totale dei prigionieri di guerra assommava, secondo le stime del 1945, a circa 591.000

Nel periodo novembre 1944 – gennaio 1945, per i centri di Accoglienza di Castellana, Oria, Trifase, rientrarono circa 26.800 ex militari dalla Grecia e dalla Balcania, e circa 4.400 prigionieri dal Medio Oriente, dall’India e dall’Africa orientale. Attraverso il Centro di Napoli, circa 12.150 prigionieri, in mano a Francesi, Inglesi ed Americani. Nel periodo febbraio. Aprile 1945, dai centri di alloggio pugliesi transitarono 15600 reduci dalla Grecia e dalla Balcania, e 7.200 prigionieri di guerra in mano inglese. Da Napoli circa 3900 prigionieri con la medesima provenienza.
Nel periodo maggio-settembre 1945, sempre attraverso i centri meridionali, rientrano oltre 40.000 reduci dai Balcani e dalla Grecia, mentre furono messi in libertà dalle autorità Anglo-americare circa 38.000 prigionieri cooperatori che avevano prestato il loro servizio nelle Italian Service Units (ISU) Statunitensi e Britanniche. A poche migliaia ammontano i prigionieri in mano alleata.
Nel periodo ottobre dicembre 1945 rientra la gran parte dei soldati che sono nei Balcani e dalla Grecia, oltre 204.200, mentre iniziano a rientrar quelli in dagli Stati Units (22.800) dalle colonie Inglesi (21.300) .Nel trimestre successivo rientrano oltre 137.000 prigionieri in mano britannica, e dagli Stati Uniti. Da Aprile a luglio 1946 rientrano oltre 283.950 prigionieri di guerra, di cui 126.000 dall’Inghilterra (che sono sostituiti nelle loro mansioni soprattutto in agricoltura, da prigionieri tedeschi) e dal resto dell’Impero, e dagli Stati Uniti (26000). Si completano i rientri dal Nord Africa dei prigionieri in mano francese,mentre rientrano 10030 prigionieri in Mano alla URSS. In realtà dall’Unione Sovietica giugno oltre 21000 prigionieri, ma solo 10300 erano gli appartenenti all’ARMIR. Si accendono su questi rientri polemiche violentissime in quanto mancano all’appello oltre 60-70.000 soldati che si presuppone essere ancora in mano alla URSS. Si accusa la URSS di non voler restituire i prigionieri per motivi ideologici. In realtà la URSS non può restituire i soldati italiani in quanto questi sono periti durante i tragici mesi della primavera del 1943, nella più grande tragedia, la ritirata di Russia, a cui è andato incontro l’Esercito Italiano.
Con la fine del 46 e il febbraio 1947 sono stati portati a termine i rimpatri dei prigionieri dall’Inghilterra, dal medio oriente, dal Sud Africa, dal Kenya, dall’Africa Orientale e dall’Australia. Rimangono 63 ufficiali e 1115 soldati da rimpatriare dall’Jugoslavia.


Il Ritorno degli Internati dalla delusione al silenzio

Gli Internati
Internati Civili 1940- 1943 nei paesi in guerra: Francia, in Gran Bretagna, Negli Stati Uniti,
Internati Civili 1943-1945 nei paesi neutrali. Svizzera, ecc,
Internati nei Paesi ex Alleati: Giappone, e alleati alla Germania
Internati Militari Italiani In Germania
Deportati Civili
Deportati Politici
Internati per ragioni Etniche, Razziali, di Sicurezza, Occasionali





Internati Militari Italiani :

Secondo lo storico tedesco Gherard Schreiber nel suo volume I Militari Italiani Internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 -1945, l'Italia schierava, alla data dell'armistizio oltre 1 milione e mezzo di uomini; complessivamente ne sono stati disarmati 1006730, mentre i rimanenti 493.000 sono riuscite a sfuggire alla cattura tedesca, o a raggiungere la montagna, o le proprie case oppure, se all'estero, i movimenti di resistenza già attivi contro la coalizione antihitleriana.
Lo stesso Schreiber offre il seguente quadro generale di situazione sui militari italiani internati in Germania: militari italiani alle armi, oltre 1.500.000; militari italiani sfuggiti alla cattura, 493.000; militari italiani catturati, 1006.780; militari italiani sfuggiti ai tedeschi dopo la cattura, 190.000; militari italiani internati, 725.000; militari italiani che hanno aderito alla RSI dopo l'ingresso nei lager, 114.500; militari italiani considerati prigionieri ed inviati al fronte dell'est come ausiliari, 12000;militari italiani internati nei lager del III Reich e territori occupato, 598.000

La Massa degli Internati Militari in Germania rientra in Italia dal maggio al settembre 1945. In totale ammontano per questo periodo 404.500, includendo anche gli Internati, sia civili che militari, in Svizzera. Nel trimestre successivo, da ottobre al dicembre 1945 ne rientrano altri 204.600 : Nel 1946 rientrano dalla Germania a più riprese circa 25.000 Internati e con l’inizio dell’estate del 1946 si può dire che tutti gli Internati Militari Italiani in Germania sono rientrati in Patria.

Gli Internati Militari provarono una fortissima delusione al ritorno in Patria, non solo per le mancate accoglienze, ma soprattutto per un mondo ideale, quello della Patria e della famiglia, sognato nei lunghi mesi di prigionia, che alla luce della realtà, svanisce e lascia tanta amarezza.
La prima delusione è la famiglia, in quanto non gli si riconosco le sue sofferenze ( anche noi abbiamo patito tanta fame, pericoli e crudeltà); La seconda delusione sono le Autorità, che trascurano i Reduci dall’Internamento non per cattiva volontà, ma perché assillati da tantissimi problemi.
L’ex Internato si sente dimenticato da tutti quelli che lo circondano. E si rifugia in un silenzio che ancora dura. Il silenzio degli Internati ha origine negli animi: hanno vissuto una vicenda troppo lunga in condizioni di abbruttimento tali da mortificare la dignità umana. Ognuno è attanagniato dalla paura di non essere capito. Nel Lager era abbandonato da tutti: Croce Rossa Internazionale, Governo di Salò, Governo del Sud, la cui voce non viene mai avvertita. Ritornato in Patria, è ancora più solo, in un Italia, che non lo riconosce e non lo capisce.

“Per questa generazione non v’e congedo” scrisse un tipografo partigiano di Cuneo in un proclama da lui stampato ed affisso il 29 aprile 1945. Edmond Michelet che era stato a Dachau ha scritto “L’esperienza che abbiamo vissuto è indelebile. Ci ha segnati per il resto dei nostri giorni . Ne abbiamo ancora le cicatrici, non tutte visibili… Abbiamo sondato gli abissi, in noi e negli altri.” Secondo Vittorio Emanuele Giuntella “Il reticolato è restato dentro di noi nel profondo. Per questo non ci piace e lo detestiamo, anche quando indica soltanto un termine.”


Il Ritorno degli Ebrei
Si può parlare di Ritorno da parte di coloro che furono oggetto e soggetti di sistematico sterminio in tutta Europa? Le cifre dello sterminio sono eloquenti: 800.000 morti nei ghetti; 1.300.000 morti per le azioni dei Einsatzgruppen e fucilati; 2.700.000 assassinati nei centri di sterminio; 300.000 nei lager. Su un totale di 9.142.000 ebrei presenti in Europa, a seconda dei diversi criteri di calcolo, si ritiene che siano stati uccisi circa 5.100.000 ebrei, per un calcolo prudente, e 5.860.000, per un calcolo meno prudente, in una percentuale che oscilla tra il 56 e il 64% degli Ebrei presenti in Europa nel 1939.
I sopravissuti non ebbero nemmeno la gioia di ritornare in una ambiente familiare, in una propria città, nella propria comunità, essendo queste totalmente distrutte. I Italia questo fenomeno, comune all’Europa occupata dia Nazisti, si attenua. Le comunità ebraiche in Italia, nonostante le Leggi Razziali del 1938 e l’occupazione tedesca e l’azione della R.S.I., riescono a non essere distrutte, anche se la loro sopravvivenza è stata spesso legata ad un filo. Degli oltre 49.000 ebrei presenti in Italia alla vigilia del conflitto, ne periscono 8.500 nell’immane tragedia dell’Olocausto.
La comunità più colpita, forse, è quella romana, che subisce il rastrellamento el 16 ottobre 1943. degli oltre 1089 ebrei deportati, solo una dozzina riescono a ritornare. Ma sarà un ritorno amaro, che per molti significa impossibilità, dopo tutto quello che si è passato, a vivere con gli altri e per gli altri. Molti, subito dopo il ritorno o anche a distanza di tempo, come per Primo Levy e, più recentemente per Di Veroli (2006, ad 82 anni), uno dei due ultimi sopravissuti ebrei romani di Auschwitz, si suicidano. La volontà di ricordare, di non lasciare cadere nell’oblio tutto quanto è stato, rappresenta per molti un’ancora di salvezza e di volontà di vivere, che è uno dei patrimoni più ampi da conservare, per evitare il rinnovarsi degli orrori dell’Olocausto.


Il Ritorno dei Deportati Civili – Le Conseguenze dell’Internamento e della Prigionia
Durante il periodo 1943—1945 i deportati italiani furono oltre 40000 e solamente il 10% di loro, cioè 4000 riuscirono a ritornare a casa dai campi di internamento in Germania. I Deportati Civili furono gli oppositori politici, i partigiani che non venivano uccisi sul posto, i sospettati, i semplici rastrellati per avere manodopera a basso costo necessaria allo sforzo bellico tedesco, altre persone che non possono ascriversi a categorie, che subirono l’Internamento per le più svariate cause. Il ritorno a casa fu accolto per lo più con atteggiamenti non positivi. Come esempio si può portare il ritorno a casa delle popolazioni contadine dell’altomodenese, che rastrellate e internate in Germania,in funzione antipartigiana, vissero l’Internamento come un’onta, come se fossero dei criminali, ed il ritorno vissuto con sentimenti di vergogna.

La liberazione, per i Prigionieri di guerra gli Internati Militari e i Deportati, in moltissimi casi, non fu l’anticamera del ritorno a casa. Moltissimi di loro dovettero sobbarcarsi anni di ospedale e sanatori Alleati posti in Germania, prima e poi, con il migliorare delle condizioni di salute, in Italia; in ogni caso il ritorno a casa avvenne parecchi anni dopo la fine della guerra. In molti casi il ricovero per le malattie contratte significava, nonostante le cure e le attenzioni dei medici, non farcela e morire dopo aver provato la gioia della liberazione. Comune a tutti coloro che subirono la Prigionia, l’Internamento, e la Deportazione nel decennio successivo alla liberazione, malattie cardiache, arteriosclerosi precoce, con lesioni infartuati e morti improvvise, molto più frequenti in confronto alla popolazione normale. Questi processi, nel ventennio successivo, si accentuano con invecchiamento precoce, manifestazioni neuropschiche con perdita della memoria, irritabilità, neurostemia, con notevole anticipo sul normale invecchiamento fisiologico. E’ il retaggio nel tessuto sociale che il Reduce porta con se e che non ebbe il giusto riconoscimento.


Il Ritorno delle Donne dall’Internamento
Se l’Internamento e la Deportazione è per tutti l’introduzione in un modo ignoto e capovolto rispetto a quello che di norma si conosce, l’sconvolgimento e il rovesciamento risultano totali quando ad esserne afferrato è un destino di donna. Nella nostra società alla vigilia della seconda guerra mondiale si esaltava per la donna le virtù “quotidiane”. Nessuno considerava possibile una esperienza come quella concentrazionaria, fatta di promiscuità e esposizione di corpi, di sradicamento da persone e luoghi familiari, abbruttimento e annientamento di tutto quello che può essere femminile, per le donne. Nemmeno per la donna ebrea, che proveniva da una antica storia di persecuzioni.
La liberazione dai campi di concentramento con l’inizio del ritorno fa iniziare il processo inverso di inserimento nel tessuto sociale. Chi aveva affrontato la cattura, il viaggio e il lager con uno o più familiari, malati, fragili, per l’età troppo avanzata o troppo precoce, vedendoli scomparire, si ritrova al ritorno senza altre persone amate, senza casa, senza lavoro, senza beni di fortuna. Un ritorno che è la continuazione della tragedia appena vissuta. Chi invece fu Internata o Deportata da sola, sapendo i propri cari a casa e relativamente al sicuro, ha la fortuna di rientrare nel calore degli affetti e di una esistenza sociale protetta, e per lei il ritorno è l’inizio di una nuova fase della vita più facile. In tutte, però, si alza il muro della comunicazione. Se si prova a raccontare, gli altri preferiscono che non si parli, o quanto lo permettono, mettono sullo stesso piano la propria esperienza e quella di chi ha conosciuto il lager: non capiscono, fraintendono, dubitano della veridicità, pensano a esagerazioni malate o a incubi più che a fatti reali, con sospetti e congetture che le accompagneranno per il resto della loro vita. Sono donne, quelle sopravissute che ritornano, giovani per lo più, perché le vecchie sono perite, catturate da uomini e internate in campi dirette da uomini: il corto circuito tra Internamento femminile e stupro o complicità nella violenza o cedimenti, è inevitabile. Tutto è travisato, nel ritorno, e la vera esperienza, quella effettiva non è capita da nessuno. Un ritorno che non è una liberazione, ma che per le donne sarà ancora più duro e difficile di quello degli uomini, per gli anni a venire. Ogni occasione (vedi film come”La casa delle bambole”, o “Il portiere di notte”) è buona, con favorire la nascita di sensi di colpa e di vergogna irreali, per esacerbare ulteriormente il dolore del Lager.

[1] M Coltrinari, Quando finì la Seconda Guerra Mondiale, in “Il Secondo Risorgimento d’Italia”, Anno XV, I/2005, pag. 89-103; M Coltrinari, Quando fini la Seconda Guerra Mondiale, in “Il Secondo Risorgimento d’Italia”, Anno XV, II/2005, pag. 91-102
[2] Sono date che ultimamente sono state molto contestate, in particolare il 25 Aprile, questa per la connotazione estremamente politica che ha assunto negli anni ’70. La volontà del Partito Comunista Italiano e dei loro aderenti, che nel retaggio di aver contributo ad una parte notevole nella Resistenza, di dare una connotazione di parte a questa data, quasi che fosse una vittoria solamente partigiana, e quindi comunista, ha suscitato reazioni uguale e contrarie fino ad alimentare il negazionismo, strisciante o palese, rimettendo in discussione le conquiste della Guerra di Liberazione. Così si avanza l’ipotesi di individuare nel 2 maggio 1945 la fine della Guerra in Italia. Con questa ipotesi si cancella con un tratto di penna tutta la Guerra di Liberazione, essendo il 2 maggio la pubblicazione degli accordi di resa sottoscritti da Alleati a Tedeschi il 29 Aprile 1945 alla Reggia di Caserta, in cui noi Italiani siamo stati volutamente esclusi. Il 2 maggio ha termine la Campagna d’Italia, combattuta da Alleati e Tedeschi sul suolo italiano.
[3] Il saggio sopra citato parte da questa necessità: individuare quando è cominciata la seconda guerra mondiale, tenendo presente gli approcci di tutti i Paesi coinvolti: ad esempio per il Giappone, forte è l’approccio che la Guerra contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna è iniziata nel 1931 e finita il 23 settembre 1945.

domenica 1 novembre 2009


TEMI DI RICERCA

Insegnamenti ed attualità della repubblica Romana

Osvaldo Biribicchi


Nell’estate del 1849 cadeva eroicamente, sotto il fuoco della Francia repubblicana di Luigi Napoleone, la Repubblica Romana. Una Repubblica voluta dal popolo romano e nata senza spargimento di sangue.
Nessun governo, compreso quello piemontese, mosse un soldato o una parola in difesa della neonata Repubblica. Quella breve esperienza politica e sociale (febbraio - luglio 1849) fu vissuta intensamente dal popolo romano e dai patrioti che accorsero da ogni parte d’Italia e d’Europa. La giovane Repubblica, portavoce di libertà politiche e nuove istanze sociali, rappresentava un pericolo non solo per le potenze imperiali dell’epoca ma anche per le monarchie costituzionali che, peraltro, si facevano interpreti dei sentimenti di libertà. Quel “pericolo” andava e fu rimosso dall’intervento delle Potenze cattoliche dell’epoca (Francia, Austria, Regno delle Due Sicilie e Spagna) invocato dal Pontefice.
Particolarmente decisivo fu l’intervento militare dei francesi che attaccarono violentemente Roma, riportando nella fase iniziale un cocente e clamoroso smacco da parte dei difensori. I Napoletani da parte loro furono duramente battuti da Garibaldi a Palestrina e Velletri mentre gli Spagnoli sbarcarono nel sud del Lazio senza combattere e gli Austriaci occuparono le Legazioni, la Romagna e le Marche.
Quando la Costituente decise di arrendersi, il Triumvirato si dimise e Garibaldi lasciò la città con duemila volontari che, con una marcia leggendaria, riuscì a condurre sino a San Marino. Nel frattempo, a Roma i Francesi avevano restaurato, il 14 luglio, il potere temporale del Papa.
Mazzini, abile stratega della politica, chiamato a capo di quell’esperimento politico, si adoperò invano fino all’ultimo per evitare la guerra con i nemici naturali: gli austriaci ed i napoletani. Non prevedeva che il colpo mortale sarebbe stato inflitto da un’altra repubblica: la francese.
La sera del 29 aprile 1849, infatti, a dispetto dei tentativi di dialogo profusi da Mazzini, un contingente militare francese, agli ordini del Generale Oudinot, sbarcato con l’inganno a Civitavecchia, si acquartierò nei pressi di Roma lungo la via Aurelia.
L’Oudinot, la cui missione prevedeva di ripristinare il “legittimo” governo romano, non elaborò un vero e proprio piano militare, convinto come era di avere di fronte solo un’accozzaglia di rifugiati politici che opprimevano la popolazione.
Sulla base di questa superficiale valutazione e di un pessimo servizio spionistico, i francesi, con soli seimila uomini e dodici cannoni da campagna, ritenevano di potersi impadronire agevolmente di Roma. Ma non fu così. Nella difesa della città furono impegnati truppe pontificie, carabinieri, finanzieri, guardie nazionali, studenti, popolani e legionari garibaldini. Tutti fortemente motivati ed animati da ineguagliabile entusiasmo.
I francesi si ritirarono per riordinare idee ed uomini mentre i difensori assaporavano l’ebbrezza della gloria e il piacere sottile di aver inflitto una cocente sconfitta ad uno degli eserciti più potenti d’Europa.
Quella sconfitta sarebbe potuta essere definitiva se Garibaldi fosse stato autorizzato ad inseguire i francesi che si ritiravano disordinatamente ma il Mazzini, che ancora sperava in un ravvedimento della repubblica “sorella”, evitò di umiliare i francesi agli occhi dell’Europa complice. Il 3 luglio, i soldati francesi entravano a Roma. Terminava, nel breve volgere di pochi mesi, uno degli esperimenti politici più avanzati d’Europa.
La Repubblica Romana fu proclamata il 9 febbraio 1849 dalla Costituente convocata dopo la partenza precipitosa di Pio IX, avvenuta il 24 novembre 1848 a seguito dei disordini scoppiati a Roma. Inizialmente, fu insediato un Comitato esecutivo di tre membri: Armellini, Montecchi e Saliceti; successivamente, il 19 marzo, un Triumvirato con pieni poteri composto da Mazzini, Armellini e Saffi. Il testo costituzionale varato alla vigilia dell’ingresso delle armi straniere nella città di Roma, e mai applicato, fu un modello di chiarezza e coerenza di impostazione. Esso si articola in più parti: un preambolo, ove sono riportati i Principi Fondamentali che racchiudono l’essenza della più avanzata carta costituzionale dell’epoca, 8 Titoli e le Disposizioni Transitorie.
Già nel primo principio “La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica” troviamo l’essenza profonda di quell’anelito alla democrazia che, nel 1849, ha avviato un processo storico irreversibile. La Costituzione della Repubblica Romana che affidava al popolo la sovranità e riconosceva allo Stato la forma repubblicana, annoverava, fra i suoi principi fondamentali, l’uguaglianza, la libertà, la fraternità e non riconosceva privilegi di nascita o casta. Al riguardo, anzi, propugnava, attraverso le leggi e le istituzioni, il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini, il rispetto di ogni nazionalità nonché la indipendenza tra il credo religioso e l’esercizio dei diritti civili e politici garantendo al Capo della Chiesa Cattolica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale.
Nella giovane Repubblica, seppure in mezzo a vivaci contrasti, le diverse anime delle forze politiche riuscirono a mantenere una tale coesione ed unità di intenti da pervenire alla comune elaborazione di un progetto di Stato che rappresentò, oggettivamente, una novità nella storia risorgimentale.
Nel Titolo I, “Dei diritti e dei doveri dei cittadini”, la Carta Costituzionale afferma chiaramente l’inviolabilità delle persone e della proprietà privata, l’abolizione della pena di morte, la libera manifestazione del pensiero, il libero insegnamento e più avanti, all’art. 13, la Carta Costituzionale prevede, come poi è stato ripreso nelle più moderne ed avanzate costituzioni, il diritto di esproprio per particolari esigenze, previa giusta indennità per i proprietari.
Nel Titolo II, composto da un solo articolo, si affermava in modo chiaro ed inequivocabile che il potere viene dal popolo che lo esercita attraverso l’Assemblea, il Consolato e l’Ordine Giudiziario.
L’Assemblea, con potere legislativo, avrebbe dovuto essere eletta ogni tre anni con voto universale e diretto e sarebbe stata costituita dai rappresentanti del popolo, uno ogni ventimila abitanti i quali, se in possesso dei diritti civili e politici, sarebbero stati elettori a 21 anni ed eleggibili a 25.
Disposizioni riguardanti le prerogative dei parlamentari, laddove si afferma che nessun rappresentante del popolo può essere perseguito per le opinioni espresse nell’Assemblea né può essere arrestato o inquisito senza l’autorizzazione della stessa, salvo il caso di flagranza di reato, le troviamo nel Titolo III. La Costituzione prevedeva, inoltre, un indennizzo ovvero uno stipendio, a cui il rappresentante del popolo non poteva rinunciare. Quest’ultima prerogativa avrebbe consentito anche ai meno abbienti di lasciare le proprie occupazioni e dedicarsi completamente all’attività pubblica nel periodo del proprio mandato.
Nel Titolo IV “Del Consolato e del Ministero” si parla del potere esecutivo: il Consolato a cui era demandato il potere esecutivo, doveva essere composto da tre membri (consoli), cittadini della Repubblica dell’età di 30 anni, nominati dall’Assemblea a maggioranza di due terzi di suffragi. Il Titolo prevedeva anche sette Ministeri: Affari Interni; Affari Esteri; Guerra e Marina; Finanze; Grazia e Giustizia; Agricoltura, Commercio, Industria e Lavori Pubblici; Culto, Istruzione Pubblica, Belle Arti e Beneficenza. L’attività di detti Ministeri, vale a dire degli apparati composti da impiegati e mezzi, era diretta dai ministri, nominati dal Governo ovvero dal Consolato.
Consolato e Ministri potevano avvalersi della consulenza di un organo ausiliario, il Consiglio di Stato, contemplato nel Titolo V, composto da quindici consiglieri nominati dall’Assemblea che avrebbero dovuto dare pareri in materia giuridica ed amministrativa.
Altro aspetto importantissimo della Costituzione della Repubblica Romana è quello riguardante la Giustizia che, come recita l’art. 52 nel Titolo VI, è amministrata in nome del popolo da giudici indipendenti da ogni altro potere dello Stato. In questo passaggio si evince tutta la sensibilità, lo spirito democratico e repubblicano dei fautori dell’avanzata Carta Costituzionale tesa a garantire il principio che la legge ed il diritto non siano imposti dall’arbitrio di un tiranno, ma derivino dal popolo dello Stato Romano attraverso l’Assemblea liberamente eletta. Fondamentale è l'indipendenza dei giudici chiamati a rispondere solo alle proprie coscienze non tutelando interessi di parte.
Il Titolo VII della Costituzione è riservato, invece, alla Forza Pubblica il cui organico doveva essere determinato per legge e solo per legge poteva essere aumentato o diminuito. Era previsto inoltre che l’Esercito venisse formato tramite arruolamento volontario o, comunque, nel modo determinato per legge.
Nel Titolo VIII, l'ultimo, “Della revisione della Costituzione”, dall'art. 63 all'art. 65, troviamo invece le modalità da seguire per riformare la Costituzione: qualunque riforma avrebbe dovuto essere presentata nell'ultimo anno della legislatura da almeno un terzo dei suoi rappresentanti e deliberata dall'Assemblea per due volte a distanza di due mesi. Ottenuta la maggioranza di due terzi, si sarebbero convocati i comizi generali per eleggere i rappresentanti per la costituente, uno ogni quindicimila abitanti.
I quattro articoli finali sono dedicati alle Disposizioni Transitorie le quali stabiliscono che le operazioni della Costituente sono destinate alla formazione della legge elettorale e delle altre leggi organiche necessarie all'attuazione della Costituzione. La Costituente avrebbe cessato il mandato con l'apertura dell'Assemblea legislativa mentre le leggi ed i regolamenti esistenti sarebbero rimasti in vigore purché non in contrasto con la Costituzione e finché non abrogati.
L’Assemblea stessa continuò a riunirsi (in plenaria o in sezioni) fino alla mattina del 4 luglio quando una pattuglia francese penetrata in Campidoglio ne intimò lo scioglimento. Due giorni prima, la sera del 1° luglio 1849, veniva approvata in Campidoglio la Costituzione della Repubblica Romana. Sia nel Bollettino delle Leggi, sia nel Monitore Romano la Costituzione fu pubblicata con l'indicazione finale “votata ad unanimità dal Campidoglio il I luglio 1849”. Il Monitore Romano pubblicò la Costituzione stessa nel suo ultimo numero in data 3 luglio. La Costituzione approvata fu, in virtù dei suoi principi fondamentali, per gli articoli sui diritti e doveri, la più avanzata in senso democratico di tutte le costituzioni italiane del Risorgimento. Il testo approvato recava l'impronta di Aurelio Saliceti: giurista di chiara fama, membro del Comitato esecutivo della Repubblica, vice presidente dell’Assemblea. Fu, quindi, una costituzione breve, di principi e di norme di carattere generale formulati per lo più con grande semplicità e chiarezza: una costituzione improntata a quei principi democratici che sarebbero stati riaffermati soltanto un secolo dopo nella Costituzione della Repubblica Italiana approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947.


lunedì 18 maggio 2009

Corriere Adriatico, 14 maggio 2009

Il libro di Coltrinari

Sabato prossimo alle 17 e 30, presso la biblioteca Radoni, l’associazione Pro Castelferretti presenterà il libro di Massimo Coltrinari intitolato “La giornata di Castelfidardo – 18 settembre 1860”. L’opera, dedicata a una delle più celebri battaglie del Risorgimento, è in qualche modo legata anche alla storia dei Ferretti in quanto tutta la selva (dove si svolsero gli scontri tra l’esercito papalino e quello piemontese comandato dallo stesso re Vittorio Emanuele II) era di proprietà di un ramo della famiglia comitale e oggi, insieme alla villa, fa parte dei beni gestiti dalla “Fondazione duca Ferretti”. All’iniziativa prenderanno parte il presidente della Pro Castelferretti Luigi Tonelli, il presidente della Fondazione duca Ferretti Eugenio Paoloni, la ricercatrice Alessandra Poggi, il capitano e storico militare Gianluca Bonci e il generale dei Carabinieri Antonio Ricciardi, direttore coadiutore del Centro alti studi per la difesa. L’incontro sarà seguito da un “vin d’honneur”.

mercoledì 13 maggio 2009

Associazione PRO CASTELFERRETTI
Sede: Castello Ferretti Biblioteca “L Radoni”


Sabato 16 maggio 2009, alle ore 17,30 presso la Biblioteca “L. Radoni” sarà presentato il libro di Massimo Coltrinari


“LA GIORNATA DI CASTELFIDARDO 18 SETTEMBRE 1860”


Ne Parleranno:

Luigi Tonelli, Presidente Associazione pro Castelferretti

Eugenio Paoloni, Presidente Fondazione Duca Ferretti

Alessandra Poggi, ricercatrice

Gianluca Bonci, capitano, storico militare

Antonio Ricciardi, generale dei Carabinieri,
Direttore Coadiutore Centro Alti Studi per la Difesa

Luigi Tonelli, Presidente Associazione pro Castelferretti
Parla di quello che la Associazione Castelferretti ha fatto in questo ultimo periodo nel campo delle attività della Associazione nel campo ricreativo e culturale. La presentazione di questo libro serve per sottolineare l’impegno della Associazione per la promozione di castelferretti anche per la parte culturale. Questo è un incontro che è anche una occasione per ricordare il Duca Ferretti di castelferretto nella data anniversaria della sua Morte. L’Associazione ha portato un fiore sulla sua Tomba a ricordo del legame del Duca e della Famiglia Ferretti con Castelferretti. Cenno sulla costruzione della Biblioteca, che in questo ultimo anno sta crescendo in modo interessante. Come dirà Paoloni, il collegamento con i Parchi di Tolentino e di Castelfidardo hanno con i temi del territorio della bassa valle dell’Esino.

Eugenio Paoloni, Presidente Fondazione Duca Ferretti
Intervento sull'azione della Fondazione “Ferretti” nel promuovere questo libro che rappresenta 30 anni di ricerche. La Storia come aspetto di memoria e rispetto del territorio. Quanto è successo nel passato non può essere cancellato anche nelle sue fonti materiche. Il volume rappresenta un riferimento sicuro su quanto accaduto, nel momento del passaggio delle Marche dallo stato unitario allo Stato nazionale, nel settembre 1860. LO sforzo che si sta facendo per creare un parco storico collegato anche al Parco di Tolentino, è un ennesimo impegno per continuare sulla strada di conservare territorio che altrimenti sarebbe speso in nome di un progresso ed una industrializzazione che non è tale.

Alessandra Poggi, ricercatrice
Tratta degli aspetti diplomatici del 1860. La Politica del Cavour all’indomani di Villafranca fino al suo ritorno al Governo il 20 gennaio 1860. La lega Centrale e le figure di Fanti e Garibaldi prima della spedizione dei Mille. Poi di questa e i risvolti diplomatici e le ripercussioni in Italia e in Europa che sono le ragioni dell’Invasione delle Marche e dell’Umbria. Argomenti che sono riportati nella prima parte del volume che qui si presenta

Gianluca Bonci, capitano, storico militare.
Intervento sugli aspetti operativi, con riferimento preminente per la parte pontificia, delle operazioni della giornata del 18 settembre 1860 con accenni alla Presenza del Cialdini sul Campo di Battaglia e della denominazione da dare agli avvenimenti di questo 18 settembre 1860: combattimento, battaglia o altro secondo quanto presentato dall’autore nel volume. Essendo anche esponente del Club Ufficiali Marchigiani, fa cenno a questo aspetto come eredità del 18 settembre nella storia militare italiana

Antonio Ricciardi,
generale dei Carabinieri, Direttore Coadiutore Centro Alti Studi per la Difesa
Nel riassumere gli interventi, parlerà anche degli aspetti operativi che sono riportati nel volume soprattutto di parte sarda; darà una presentazione ed una valutazione del volume e dei contenuti del medesimo nel quadro della tradizione marchigiana, ovvero le Marche che dal 1860 hanno realmente voltato pagina, trasformandosi da stato pontificio a stato laico e costituzionale. Riassume quanto è stato detto dal Panel dei presentatori del volume

Sarà presente l’Autore
con alcune parole conclusive e commento a quanto detto alla giornata. Risponde alle domande che eventuali presenti in sala vorranno fare.

lunedì 20 aprile 2009





EDIZIONE NUOVA CULTURA
LA RICOSTRUZIONE E LO STUDIO DI UN AVVENIMENTO
MILITARE

COLTRINARI M. - COLTRINARI L.
ISBN 978886134267
pagg. 292 - 2009 - € 18,50
f.to 17X24
Collana <>>

Il volume si prefigge di fornire, a studenti e ricercatori, prendendo le mosse dai dettami e
finalità del Progetto "Storia in laboratorio" promosso dalla Associazione Combattenti
della Guerra di Liberazione volto a divulgare e far conoscere la Storia alle nuove
generazioni, uno strumento utile al fine di ricostruire e studiare, il più correttamente
possibile, un evento storico-militare (del passato) proponendo un metodo di analisi
consequenziale.Prendendo a riferimento il fenomeno "guerra", il volume propone
schemi attagliati, anche in combinazione tra loro, alla guerra classica, alla guerra
rivoluzionaria e/o sovversiva, con le più varie accezioni, ed alle recenti peace support
operations, ove, in questo caso, i soggetti protagonisti da due passano a tre (parti in
conflitto/ forze di interposizione o "di pace").Sono "note",suggerimenti che ognuno
dei destinatari può, anzi deve, interpretare secondo la sua creatività, nella più ampia
accezione della libertà di pensiero, rispettando solo i criteri di scientificità e di coerenza,
al solo fine della conoscenza, la più ampia, onesta e completa possibile.
Un volume che vuole essere uno strumento, più da consultare che da leggere.
EDIZIONI NUOVA CULTURA -
P.le Aldo Moro 5 00185 ROMA - Per info visitare il sito: www.nuovacultura.it
Per ordinare il testo invia una e-mail all'indirizzo: ordini@nuovacultura.it
direttamente: contattare Gennaro Guerriero
0697613088 3397010065

martedì 14 aprile 2009

La Comunità ebraica nell’ambiente mercantile anconetano del XVIII secolo

Silvia Senigalliesi

La comunità ebraica anconitana inserita nel territorio cittadino da antica memoria, le prime fonti certe parlano del X – XI secolo, anche se il Ciavarini fa risalire la presenza giudaica sul territorio già in epoca romana- attraversa nel XVIII secolo profondi cambiamenti che mutano l’organizzazione sociale interna della comunità e rivoluzionano i rapporti con la cittadinanza.
Nel corso dell’Età Moderna la comunità anconitana, che conta più di mille unità e rappresenta uno degli otto insediamenti ebraici più numerosi in Italia, vive semireclusa all’interno delle mura circoscritte del ghetto, ma con delle concessioni economiche particolari rispetto alle altre, poiché è troppo necessaria allo Stato Pontificio, di cui fa parte, quale trainante dell’economia adriatica.
L’attività principale della comunità è infatti la mercatura in particolar modo diretta verso i territori del Levante, organizzata in maniera eccellente da mantenere in vita anche nel corso del Seicento attivi contatti commerciali nel microcosmo adriatico atti a traghettare l’economia cittadina al di là della negativa congiuntura economica che investe il territorio italico e l’Europa in generale.
Gli ebrei in Ancona commerciano pellami, cere, prodotti artigianali scambiati nei porti dalmati, nei territori del Levante e nelle principali città europee, in prevalenza tra correligionari. Sono intensi, infatti, i contatti con le altre comunità ebraiche legate a quella anconitana da solide unioni matrimoniali. In questa prima fase del XVIII secolo gli ebrei sono anche prestatori - usurai, come li definisce la comunità cristiana - anche se questa attività è soltanto un corollario ad un’intensa attività commerciale. La popolazione del ghetto, che rappresenta l’11% della popolazione cittadina, è divisa al suo interno in due gruppi etnici: quello levantino e l’altro più propriamente autoctono. Sono uniti in apparenza ma divisi, come dimostra l’esistenza di una sinagoga levantina costruita in prossimità del porto e di compagnie di assistenza interne al ghetto ed accessibili soltanto agli ebrei levantini. La comunità ebraica possiede un organo di autogoverno, l’Universitas, che rappresenta la comunità ebraica di fronte alle istituzioni cristiane, cura quindi i rapporti con il mondo “esterno” dal redigere le controversie a fare da tramite nel prelievo fiscale che la comunità cristiana esige. Svolge anche attività interne alla comunità in qualità di ammortizzatrice degli squilibri sociali, ma la sua funzione più importante è quella di mantenere la coesione interna e garantire il rispetto delle tradizioni.
L’evento nuovo che modifica la consuetudinaria attività mercantile svolta dagli esponenti della comunità ebraica è la proclamazione del Porto Franco nel 1732. L’attuazione del regime di franchigia doganale richiesta a lungo dagli anconitani ed anche dagli esponenti della Universitas ebraica, è concessa da Papa Clemente XII nel tentativo di rivitalizzare i languenti traffici economici cittadini decaduti nel corso del XVII secolo. Le nuove esenzioni favoriscono la ripresa dei commerci: nel breve periodo, fino al 1740, si verifica un sostanziale aumento delle navi straniere che attraccano al porto, come risulta evidente dai registri dell’Arco di Traiano. Una ripresa che va nel senso di una forte ponentizzazione dell’economia.
Ora sono principalmente navi inglesi, olandesi, francesi quelle che sostano nel porto dorico con i loro carichi di prodotti finiti e si riforniscono di materie prime, derrate agricole e semilavorati. La franchigia, quindi, dà la possibilità ai mercanti stranieri di contrarre nuovi e redditizi investimenti. In città sono soprattutto le grandi casate commerciali a trarre i maggiori profitti. Primo fra tutti il signor Francesco Trionfi, artefice di una sorprendente ascesa sociale che nel giro di un decennio lo vede impegnato in diversi affari economici e che domina con i suoi atti di cambio marittimo, procure e compravendite le carte notarili dei notai anconetani; il Nembrini, nobile anconitano, che s’inserisce nel giro d’affari prodotto dal cambio marittimo tenuto in mano dagli esponenti della comunità ebraica già da diversi decenni.
La franchigia, positiva in un primo momento, fa sì che si aggravi in città il divario fra i grandi capitalisti e la moltitudine dei mercanti: da una parte la borghesia e la nobiltà che si arricchiscono notevolmente e dall’altra la popolazione che impoverisce sempre di più. Nel giro di un ventennio si profilano i problemi legati alla franchigia. Il Caracciolo al riguardo parla di un successo esogeno, poiché non scaturisce da un dinamismo interno alla città e consente ingenti guadagni solamente agli imprenditori stranieri ed ad alcuni imprenditori locali. Mancò la connessione con un forte retroterra agricolo, sia uno sviluppo tecnologico in campo manifatturiero: ressero infatti solamente gli opifici tradizionali, legati ad un’economia di sussistenza. Il Porto Franco portò un progresso troppo veloce nello stagnante Stato Pontificio.
A questo punto è lecito chiedersi se il regime di Porto Franco abbia mutato in qualche modo la vita economica e sociale anche degli esponenti della comunità israelitica e con quale intensità. Come accade per la cittadinanza, si verifica il fenomeno di arricchimento di una parte esigua delle famiglie del ghetto che aumentano ancora di più la loro agiatezza. Dall’analisi delle carte notarili del notaio Francesco Saverio Betti, quindi svolgendo indagine a campione, si evidenzia la vitalità economica degli ebrei anconetani ma va altresì rilevata la prevalenza di una parte sociale del ghetto rispetto ad un’altra: chi stipula contratti di società, chi ha una parte attiva nei commerci cittadini ed attiva procure, chi concorda matrimoni che prevedono somme consistenti in dote, chi infine acquista Jus Cazacà, ovvero diritti di inquilinato perpetuo poiché agli ebrei non è concesso il possesso di beni immobili, è sempre la parte più ricca del ghetto che ha fatto fortuna anche grazie al Porto Franco. L’analisi degli atti notarili non consente una visione d’insieme sulla vera vita all’interno della comunità ebraica: emerge infatti l’illusione di trovarsi di fronte ad una compagine agiata caratterizzata da una ricchezza diffusa.
Il forte grado di maturazione economica raggiunta da una parte minoritaria della comunità fa sì che all’occhio dell’osservatore cristiano settecentesco quello ebraico risulti un gruppo sociale ricco e spregiudicato, tanto da animare sentimenti di ostilità ed invidia che sono alla base del pregiudizio antiebraico. Il livello di sviluppo economico di questa élite è tale che, grazie alla franchigia portuale, essa riuscirà a “specializzarsi” nel settore economico di assistenza al commercio attraverso il contratto di cambio marittimo.
La conseguente polarizzazione dei ceti sociali si aggrava sul finire del secolo tanto da far nascere seri contrasti all’interno del ghetto. La ricchezza smodata di alcune famiglie suscita le ire non soltanto della popolazione ebrea, ma anche l’invidia della città. Nel 1793 a tal proposito matura nei responsabili della comunità la decisione di una regolamentazione nell’esibizione della ricchezza con la celebre “Pragmatica contro il lusso”, dalla durata triennale.
Il Porto Franco, così tenacemente richiesto dalla nazione ebrea anconitana, non porta un benessere diffuso, ma una ricchezza per pochi e contribuisce ad accentuare il divario sociale. La moltitudine dei piccoli commercianti ebrei si trova improvvisamente tagliata fuori: il commercio con l’Oriente e con i porti adriatici diviene ora una direzione antiquata nel quadro delle nuove rotte economiche. Nei contratti commerciali si ripetono solo i nomi dei Coen, dei Consolo, dei Morpurgo, dei Costantini: famiglie ebraiche titolari di aziende che hanno saputo indirizzare i loro traffici ad Occidente e che una volta arricchitisi, si avvicinano sempre di più alla borghesia cittadina. Acquistano i diritti di Jus Casacà per costruirsi delle residenze fastose, iniziano ad assumere usi e mode non caratteristici della loro comunità.
Per la comunità ebraica anconitana questi anni centrali del XVIII secolo sono quindi portatori di un’intenso fervore economico e di un’apertura verso la cristianità nel tentativo di un’affermazione non più comunitaria, caratterizzata da una forte dose di individualismo da parte dell’élite più ricca dell’Universitas e parallelamente di ripiegamento su se stessa da parte della popolazione più povera. Per la prima volta alla fine del secolo si avvertono i segni dello sfaldarsi della coesione etnica e culturale che la chiusura del ghetto ha amplificato. E’ una comunità fortemente divisa al suo interno quella che attende con fiducia l’arrivo dei francesi spinta dal desiderio di riscatto, non piegata dal pessimismo di una condizione di cattività.

mercoledì 1 aprile 2009

Presentazione Del Volume

Il Borgo San Giacomo e la Misericordia di Osimo

Di
Massimo Moroni


Domenica 5 Aprile 2009 alle ore 16
presso la Sala Parrocchiale della Misericordia ad Osimo
Sarà presentato il volume dedicato al Borgo San Giacomo di Massimo Morroni

Interverranno Stefano Simoncini, Assessore alle Attività Culturali del Comune di Osimo
ed il critico letterario Prof. Linnio Accoroni

Al termine l’Autore commenterà la Proiezione di un documentario dedicato
al Borgo San Giacomo

domenica 15 marzo 2009


Una nuova campana
per la chiesetta del Cimitero


Da tempo la campana del nostro cimitero non è più nel campanile di Santa Maria della Misericordia. Probabilmente fu rubata una notte da qualche scellerato; speriamo che almeno possa essere servita per colmare un bisogno estremo.
Per questo chiediamo a tutti i cittadini di Castelferretti di offrire 1 Euro ciascuno per poter disporre della somma necessaria all’acquisto.
La campana, il cui costo previsto è di circa 2500 Euro, sarà commissionata alla Pontificia Fonderia Marinelli di Agnone e riporterà incisa l’iscrizione:

“Donata dai cittadini di Castelferretti
in memoria di tutti i defunti”


Don! Don! Don!
Suona la campana grande di Sant’Andrea e il mesto corteo si muove,
sfila lentamente davanti al castello, imbocca la strada del cimitero.
Don! Don! Ridice la campana e si unisce alla preghiera che sale e sale …
e sembra ripetere “miserere Domine... miserere... ”
E si prepara la sera, lentamente scende per l’antica scalinata
di Montedomini a toccare le guglie nere dei cipressi, oltre le mura
del cimitero.
Allora tace Sant’Andrea e un altro rintocco più lieve s’ode nell’aria,
Din! Din Din!
Ė la campana di Santa Maria della Misericordia al cimitero
che annuncia ai defunti l’arrivo di una nuova anima e rassicura i vivi
che non sarà lasciata sola ma circondata dagli amici che l’hanno preceduta.
p.m.

Si potrà dare il proprio contributo negli esercizi commerciali di Castelferretti che esporranno la presente locandina.

venerdì 9 gennaio 2009

La posizione geografica della Rocca III

Il Colle di San Cataldo

Ceduta la rocca malatestiana alla Chiesa, il cardinale Alnornoz si trasferiva nel 1356 in Ancona ed ordinava la sistemazione del fortilizio “che con meravigliosa arte fu in salde e grosse mura edificato” sul colle di San Cataldo[1] divenuto in tal guisa segnacolo ancor infido e funesto di tirannica oppressione. La natura stessa infatti aveva concesso al colle temute caratteristiche di dominio che il sapiente artificio degli uomini aveva saputo agevolmente accrescere e ingagliardire.
Alto 104 metri sul livello del mare, da esso, nel secolo XIV, potevasi discendere per sentiero praticabile nella sottostante scogliera litoranea[2] il che oggi non è più possibile a causa della violenza del mare e del lavorio degli agenti atmosferici che hanno svolto nei tempi una rapidissima opera disgregatrice, intaccando profondamente le marne mioceniche del contrafforte su cui sorge il Guasco, il San Cataldo, il Cardato e rendendo pressoché inaccessibile dalla parte marittima.
Gli scogli emersi di San Clemente e San Clementino e quello affiorante della Volpe indicano quale era la linea dei frangenti in epoca relativamente vicina: tanto vicina e recente che, verso la metà del secolo XVI, l’opera di corrosione fece crollare la chiesa parrocchiale di San Clemente, che sorgeva laddove oggi esiste lo scoglio che dalla chiesa trasse nome.[3]
Dal che può desumersi che nel secolo XIV l’estremo margine costiero doveva certamente sopravanzare quello attuale di oltre un centinaio di metri e che di altrettanto doveva sporgere il ciglio della rupe sovrastante.
Questo elemento orografico il colle di San Cataldo domina il Guasco ed il Cardato e ne è da esso inquadrato limitato come è, ad occidente ed ad oriente, da valloncelli e ripiani su cui esso cade con rupi dalle pareti erte e talvolta piombanti.
A mezzogiorno il colle si distendeva dolcemente verso la vallata della Pannocchiara (Piana degli Orti) determinata nel tratto inferiore da un lato dal San Cataldo e, nel versante opposto, dalle Falde dell’Astagno. Su questa zona in parte e, più specialmente, sui colli del Guasco e dell’Astagno, sorgeva la città di Ancona, rinserrata nel secolo XIV da mura castellane, le quali, munite di fossato antistante, dipartivansi dal San Cataldo, scendevano per S. Pietro, a porta Farina e a porta Calamo e si prolungavano, per i Torrioni, fino a San Francesco ad Alto.[4]
A San Francesco le mura si coinnestavano con quelle di porta Capodimonte sviluppandosi, ulteriormente, lungo il ciglio nord-orientale dei dirupi del colle Astagno.
A difesa della spiaggia, nel tratto intercedente fra lo scoglio di San Luca (Porto Pia) e l’Arco di Traiano, ergevasi una linea di torri isolate l’una dall’altra e prive di cortine interposte.
Dalla sommita del San Cataldo, che sorge in vetta al promontorio di Ancona, la vista è mincantevole e lo sguardo può spaziare sullo smisurato orizzonte adriatico, sviluppatesi in un mirabile arco che da monte Conero si prolunga sino alla lontana punta di Pesaro.
A cielo limpido e terso, dalla luminosità trasparente d’oltre sponda sorge, quale nitida apparizione di fata morgana, la visione cerulea della rocciosa costa dalmata, baciata dal mane sostro d’Oriente.
Verso terra l’orizzonte si completa con le verdi colline che si accavallano e salgono lontano sulla catena appenninica, fino a fondersi armoniosamente con l’azzurro del cielo.
Fragranze di mare e di collina ovunque sature di colore e di luce bellezze calde di risorse naturali indistruttibili perché perenni ed immutabili nei tempi
Il colle ha mantenuto la sua fisionomia secolare: un poco malinconica fatta di austerità di silenzio di lontananza. La sua anima antica si ridesta però e si rileva al sognatore che sappia denudare la terra dalle sovrastrutture della civiltà invadente; a chi sappia intendere la voce del mare e l’ululo del vento, facendo parlare ai ricordi di chi vide nei lontani tempi e lasciando alla fantasia creatrice il ritessere quanto i secoli dispersero, ma non annullarono.
[1] Peruzzi, pag. 76 Colle San Cataldo, oggi (1939) dei Capuccini ove sorgono il semaforo e la Caserma Stamura
[2] Leoni, “Ancona Illustrata” pag. 2
[3] Nei Libri della pubblica segreteria anconitana rilevasi che nel 1536 dal Colle Guasco discendevasi alla chiesa di San Clemente, cfr. Leoni, Istoria di Ancona, vol. 1, pag. 66
[4] Porta Calamo: fu costruita nel 1329 e demolita nel 1862. Sorgeva nell’attuale piazza Roma all’altezza della fontana delle 13 cannelle. San Francesco ad Alto attuale (1939) ospedale militare. Mura di porta di Capidimonte: sull’Astagno, edificate ne XIII secolo: porta Capodimonte fu costruita nel 1335.